C’era anche il caffè tra gli affari illeciti gestiti dal clan Parisi di Bari. È quanto emerso dall’inchiesta, coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia, sui presunti legami tra criminalità organizzata e colletti bianchi e che, due giorni fa, ha portato all’esecuzione di 135 misure cautelari ad opera della Polizia di Stato.
Quello del caffè – si legge negli atti della DDA barese – si è dimostrato un settore idoneo ad attirare gli investimenti della malavita. Il prodotto finito, infatti, permette, se venduto ad un prezzo maggiorato, importanti ricavi con bassi investimenti. Motivo per il quale è diventato di grande interesse per le organizzazioni criminali.
Secondo quanto evidenziato dagli inquirenti, sarebbero state tre le aziende del settore in quale modo “collegate” con il clan di Japigia: Torregina Caffè, Raro Srl e Caffè Sartoriale. La prima riconducibile a Tommy Parisi (figlio dello storico boss Savinuccio) e a Christopher Luigi Petrone; della seconda era invece socio “occulto” il fratello del capoclan, Massimo Parisi. Tutti e tre sono finiti in carcere, lunedì scorso, nell’ambito della maxi operazione antimafia.
Sfruttando la sua forza criminale, sempre secondo le accuse, il clan avrebbe costretto i titolari di bar e altre attività commerciali a vendere il caffè prodotto dalla malavita, spesso dopo averlo acquistato “a nero”.
“Una tecnica imprenditoriale – è riportato nelle carte dell’inchiesta – caratterizzata da impliciti metodi estorsivi ed impositivi, che si pone nei confronti degli imprenditori come vicina alle attività, favorendone i profitti, ed in grado di essere preferita alla legalità dello Stato”.
Secondo questa logica criminale, le diverse realtà commerciali, pur sapendo di pagare un prodotto di scarsa qualità a prezzi anche maggiorati rispetto al valore di mercato, si assicuravano così la protezione del clan, oltre che maggiori guadagni per via dell’evasione fiscale. In pratica, gli esercenti non acquistavano semplicemente il caffè ma anche la benevolenza dei Parisi.
Investendo il denaro “sporco” nel business del caffè, gli inquirenti stimano che il clan sarebbe riuscito a ricavare circa 10 euro per ogni chilo di prodotto venduto, garantendosi, in proporzione, entrate per centinaia di migliaia di euro.